Opinioni - Dal decreto urbanistico alle riforme fatte “all’italiana”: una riflessione critica sul progressivo indebolimento dei contrappesi democratici, tra norme ad hoc e sanatorie ex post. Una tendenza che lascia sempre meno strumenti di controllo reale ai cittadini e alimenta il distacco tra chi gestisce il potere e la società civile
di Riccardo Pignatelli
Lo hanno chiamato “il salva Milano” ma di fatto non è altro che una proposta di decreto legge in materia urbanistica approvato in prima lettura alla Camera, con appoggio quasi bipartisan di maggioranza e opposizione, con la sola esclusione del M5S e di Avs. Il decreto, però, è attualmente arenato per effetto delle inchieste della Procura di Milano su interventi edilizi di rigenerazione urbana ed altro.
Non entreremo in questa sede sulla questione delle presunte responsabilità o ipotesi di reato avanzate dai giudici milanesi che hanno portato anche ad alcuni arresti domiciliari (allo stato revocati in sede di Riesame) e a taluni avvisi di garanzia. Non è la questione giudiziaria che ci interessa, la quale avrà il suo corso e le conclusioni che la magistratura riterrà necessarie ed opportune, ma è il fatto in sé che assume una certa rilevanza politico - sociale meritevole di alcune riflessioni a margine.
La prima è che nel nostro Paese sta lentamente avvenendo una trasmutazione dell’etica politica (intesa come agire politico responsabile), la quale induce i partiti a ritenere che tutto sia possibile nell’amministrazione della cosa pubblica ed a ritenere (erroneamente) che chi è eletto ha implicitamente il diritto ed il potere di decidere su tutto, anche in barba a norme e regolamenti, e nel caso questi dovessero risultare in pieno contrasto con la volontà politica si può alla fine sempre intervenire con una legge che riformi tutto e renda possibile ciò che in una normalità fatta di buon senso sarebbe inopportuno e contrario all’interesse generale.
Lo abbiamo visto con gli “scudi legali” adottati per la gestione della pandemia, poi con l’abrogazione dell’abuso di ufficio, per eliminare (si è detto) la paura della firma da parte dei sindaci e pubblici funzionari, ed ora da qualche parte già si paventa l’abolizione anche dell’obbligatorietà dell’azione penale e chissà quant’altro. Tutto viene giustificato con il fine di migliorare la vita degli italiani e con lo scopo di introdurre le innovazioni necessarie a rilanciare l’economia del Paese sia in termini di produttività che di maggiore efficienza.
Lo sappiamo, questa è un’antica retorica politica che esiste da sempre e si rivolge ai cittadini come massa, e se volessimo comprenderla meglio nella sua genesi dovremmo tornare a leggere la storia della pubblica amministrazione dall’unità d’Italia sino ai giorni nostri; uno spaccato si può cogliere anche nel saggio di Giuseppe Civile, “Il Comune rustico...”, che racconta come si adottavano atti e delibere in un piccolo paese del Mezzogiorno d’Italia alla fine dell’800, appena dopo l’unità, e gli interessi politici e sociali che vi ruotavano attorno. Aiuterebbe a capire meglio quanto le tante riforme (fatte all’italiana) abbiano effettivamente cambiato i costumi e i comportamenti delle classi politiche e di una certa burocrazia che ancora oggi assilla il cittadino, blocca il Paese ed il suo avanzamento civile nel contesto socio-politico europeo.
Ciò che è veramente singolare, da noi, è che il più delle volte le norme di riforma che sono introdotte con il fine di una maggiore trasparenza e legalità di fatto finiscono poi per limitare sempre più i contrappesi nelle mani del cittadino rispetto ai pubblici poteri.
Al contrario, in una democrazia compiuta che deve tradurre lo stato di diritto in ogni rapporto giuridico che regola il sistema sociale, il cittadino dovrebbe godere appieno ed in concreto di maggiori diritti a cominciare da quelli sacrosanti ed inviolabili che la Costituzione gli riconosce. Ma partendo dall’art.1 (la sovranità popolare) ci accorgiamo che da noi essa è ormai in declino, visto il sistema elettorale vigente, ormai da anni, che priva il cittadino del voto di preferenza impedendogli di scegliersi direttamente i rappresentanti in Parlamento (visto che le liste e gli eleggibili sono decisi in pratica dalle segreterie dei partiti). Non parliamo poi del voto popolare espresso con i referendum che spesso rimangono lettera morta.
La cosa grave è che con il passare del tempo il legislatore (di destra o di sinistra che sia come maggioranza di governo) ha inteso la norma più come uno strumento di potere, che di regolazione degli interessi generali, quindi non più obbligata al rispetto dei criteri di equità, generalità ed astrattezza, ma più come mezzo dirimente di una volontà rispetto ad un’altra, di un interesse rispetto ad un altro.
Ed ecco che siamo arrivati, in un certo senso, al “salva Milano”, tema dal quale parte questa breve riflessione. Non si tratta di semplice rigenerazione urbana o interpretazione di norme urbanistiche come viene raccontata nella narrazione fatta nei diversi talk show, ma più che altro di sanatorie ex post di scelte già fatte o in corso, le cui eventuali irregolarità si è cercato di sanare con norme ad hoc.
La tendenza insomma è questa, ma, come diceva il celebre giornalista A. Lubrano, una domanda viene spontanea: immaginate voi se il legislatore avesse usato lo stesso metodo per i cosiddetti finanziamenti illeciti dei partiti all’epoca di “mani pulite”, l’intera indagine sarebbe stata affondata sul nascere ed il cosiddetto consociativismo politico l’avrebbe fatta franca ancora una volta, anche se non si può dire che oggi sia del tutto scomparso.
Il punto qui non è se si può fare o non fare, siamo tutti d’accordo sulla piena legittimità del procedimento normativo, il Parlamento è certamente sovrano nel discutere e fare le leggi, ma occorre domandarsi se certi interventi sono alla fine opportuni e soprattutto se rispondono a fini di pubblico interesse ed al comune sentire dei cittadini; è su questo tema che devono dibattere e misurarsi le forze politiche oggi.
La democrazia ha i suoi costi ed uno di questi è l’obbligo di coerenza nelle scelte e il dovere di garantire sempre equità e giustizia sociale. Insomma tornare a un’etica della responsabilità nelle scelte, rinunciando a volte anche al potere di fare ciò che si può legittimamente fare ma non è opportuno fare.