Quando la libertà non si veste da social: conoscere se stessi per essere veramente liberi

A ruota libera: sulla traiettoria di viaggi ed idee - Dalle guerre attuali ai drammi personali, una riflessione sulla necessità di accettare i propri limiti e di incidere la propria direzione, al di là delle aspettative e delle apparenze. e testimonianze di Irina, Giuseppe e le parole di filosofi ci guidano in una profonda riflessione sulla libertà come responsabilità, autenticità e percorso interiore

Quando la libertà non si veste da social: conoscere se stessi per essere veramente liberi
di autore Grazia Maria Sacco - Pubblicato: 22-05-2025 16:15 - Tempo di lettura 4 minuti

È trascorso un po' di tempo dalla celebrazione del venticinque aprile, come storica data di liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e dal fascismo, mentre avevo ancora fra le mani il libro “Domani, domani” di Francesca  Giannone; nel contempo i giornali titolavano sulle loro pagine iniziali gli sviluppi di una guerra fra Israele e Palestina che macchia  di sangue,  quello dei più innocenti, le pagine attuali della storia  e  quelle  dell’immediato futuro, mentre il Papa, da poco eletto, rilancia l’appello alla Pace fra tutti i popoli.

Ed è il momento in cui conosco Irina, fuggita da un’altra ennesima realtà di guerra attuale, quella che lei descrive come la minaccia non soltanto ai territori della sua Ucraina,  ma all’identità di un intero popolo, il suo, quello che vede le donne andare via, a ripararsi dall’orrore e dalla precarietà insieme a figli e nipoti, lasciando gli uomini a combattere al fronte, perché la resistenza, la loro innata attitudine alla fatica e a preservare ciò  che hanno con  sudore conquistato , rappresenta tutto l’oro del mondo, quello al quale non sono disposti a rinunciare, perché “ nessuna bandiera straniera addomesticherà  mai le nostre origini”.

Ha gli occhi piccoli Irina, come fessure strette e pronte a rimpicciolirsi per il naturale istinto alla difesa, che la vita si è divertita ad allenare bene, ma non appena parla della sua terra e di quel senso di autentica libertà, quelle fessure diventano finestre spalancate sul mare, tanta è la sua voglia commossa di raccontarti la sua gente, quella che ha lasciato lì con la paura di non ritrovarla più un giorno che vi farà ritorno, o peggio, di trovarla cambiata, ripiegata alla rassegnazione di non poter essere più ciò che fieramente avevano raggiunto.

È a questo punto che penso che  la libertà non è quel concetto leggero, come una nuvola soffice sulla quale appoggiare la propria testa, coacervo di diritti e pretese, posizioni ereditate negli anni e rivendicazione con il minimo sforzo e il massimo risultato garantito, che i tempi moderni ci hanno “propinato”.

Lo vediamo , spesso, su social: quel che conta oggi è scendere in piazza e vestirti da qualche cosa; preferibilmente da quello che maggiormente ti rende “socialmente sensibile” ed in linea con le mode del momento; quasi sempre qualcosa sul quale sei poco informato, che poco ti interessa e che, soprattutto,  poco ti espone al rischio.

Abbiamo comprato anche la libertà; l’abbiamo travestita da lusso , quello che ha un prezzo, però; arredata come un attico a Los Angeles, dove il compromesso è ben nascosto fra le pieghe di scelte ispirate più alla convenienza ,che alla reale meta di chi ha imparato a conoscersi e a misurarsi.

Lo diceva Giovenale “conosci te stesso”; il brocardo di più profonda e difficile saggezza, tanto più in un tempo che spinge alla velocità estrema e che ritiene , non soltanto possibile, ma addirittura un dovere morale, superare ogni proprio limite; sfidare ogni incapacità e non inclinazione si possegga, perché il mondo ci vuole sul pezzo, performanti e in grado di rappresentarci attraverso il denaro.

Qualche mese fa, forse ad inizio anno, Galimberti, dal palco del “Teatro Manzoni” di Cassino, declamava la sua filosofia e, fra le parole che gli sfuggivano sagaci disegnando intersezioni di pensieri e riflessioni, mi rimase impressa questa frase “Se oltrepassi la tua misura, prepari la tua rovina. Se conosci il tuo limite, sarai felice”.

Quanta libertà ci può essere in un uomo che non sa chi è, non sa entro quale perimetro si espande la sua personalità e impiega il proprio tempo ad assomigliare ad uno standard, piuttosto che a ciò che realmente si porta dentro?

Essere liberi non significa essere incoscienti; piuttosto responsabilmente sapere come riempire lo spazio che separa il tuo blocco di partenza dalla destinazione alla quale  naturalmente puoi tendere, in virtù di ciò che sei nel profondo, sapendo incidere una direzione.

Nel farlo ci vuole la responsabilità di tentare di addentrarsi anche in territori ignoti, ma dei quali senti il richiamo, al punto da prendere il coraggio di rischiare anche una momentanea sconfitta; ma in fondo quella vera, unica ed irrevocabile sarebbe la resa a non cercarsi davvero e a non portare in superficie quel lumicino che si agita in ognuno di noi e che ci contrassegna nel dna come una particella minuscola, solo nostra, che preme per diventare percorso.

Lo sa bene Giuseppe, nonostante una vita, quasi più della metà, passata ad obbedire alle aspettative altrui; a far finta di essere grato di portare con se l’eredità altisonante del saponificio di Casa Rizzo, finchè, un incidente, il più terribile, la morte dei suoi genitori, ne decreterà, a dispetto del dolore della perdita, la sua liberazione, in un conflitto famigliare che bene l’autrice sa dipanare come scontro fra il trattenuto degli anni più giovanili ed il desiderio più adulto di non sprecare ciò che resta.

Giuseppe morirà prima che la sua barca “Fenice” venga premiata come imbarcazione miglior, nel suo ingegno costruttivo, al salone nautico di Savona e prima, soprattutto, di ricevere il perdono da suo figlio, perché sono spesso, inspiegabilmente, le persone a noi vicine che non comprendono il nostro anelito di libertà, quando, soprattutto, sconvolge un’architettura di apparenti incrollabili certezze.

Perché è la narrazione di noi stessi che, specie oggi, ci riesce maledettamente più facile rispetto alla nostra esistenza in sé, incapaci come siamo di supportare i costi delle scelte, quelle vere, che  sono scevre dalle aspettative famigliari e da quelle sociali; che sono prima di tutto dovere e conquista, piuttosto che elargizione e privilegio.

“ Quand’è che ti sei sentita libera?”, immaginando me stessa a farmi questa domanda, risponderei “ Quando ho accettato quello che di me non posso cambiare; ho provato, poi, a condurre fin dove volevo e potevo diventare ciò che intimamente sono, mettendoci le mani come fosse un magma caldo e pieno di vita da modellare; ed ho lasciato andare tutto ciò che nel frattempo e nel passaggio non mi è più utile”.





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