Referendum, ecco un manuale di sopravvivenza per chi perde e si proclama migliore

Opinioni - Tra autocompiacimento e frasi fatte, emerge la contraddizione di una sinistra che oggi condanna l'astensionismo, ma in passato ha saputo smontare e sterilizzare la volontà popolare. Dalle firme illustri ai comprimari rassegnati, il post-voto rivela un'opposizione che si parla addosso, incapace di comunicare con il Paese reale

Referendum, ecco un manuale di sopravvivenza per chi perde e si proclama migliore
di Dario Nicosia - Pubblicato: 12-06-2025 12:03 - Tempo di lettura 3 minuti

Ci ho messo tre giorni – ben tre – a cercare sui giornali, nelle bacheche social e tra le pagine dei soliti editorialisti le reazioni della sinistra all’esito del referendum. Un referendum che, come si sa, è fallito sul piano numerico ma ha prodotto tonnellate di riflessioni. Riflessioni, si fa per dire, perché il tono dominante non è stato quello dell’analisi. È stato quello del cordoglio sofisticato, del moralismo colto, del solito autocompiacimento ferito.

La sinistra – o per meglio dire quella che chiamo la sinistra gaga – non ha preso il risultato come uno schiaffo. Lo ha preso come una conferma della sua superiorità antropologica. Il popolo non è andato a votare? Dunque il popolo è ignorante. È stato ingannato. È pigro. È fascistoide. Serve educarlo. Rieducarlo. O magari sostituirlo, chissà.

Tralascio le battute di spirito da social bar (“13 milioni di voti sono più dei 7 della Meloni alle Politiche”: e quindi?) e l’ipocrita invocazione del “rispetto per chi ha votato”, pronunciata con lo stesso tono compassato con cui Napolitano, nel 2011, fece evaporare il referendum sul nucleare. O con cui Renzi ignorò il suo stesso fallimento nel 2016, tentando di restare attaccato al treno in corsa. Tralascio anche un certo commento apparso sul nostro quotidiano online, in cui l’autore, a corto di argomenti, ha provato a imbellettare l’ennesima sconfitta con le solite frasi fatte. Commento che, a scanso di equivoci, ho già liquidato altrove.

Naturalmente, nel panorama delle reazioni, spiccano le solite firme. Michele Serra scrive che “il Paese è smarrito”. Gramellini ci informa che la gente è più attratta dalle grigliate che dalla democrazia. Ezio Mauro, da par suo, declina il lutto come vuoto partecipativo. E Concita De Gregorio ci spiega che se le donne non votano, è perché nessuno ha chiesto loro davvero come stanno. Nel campionato della retorica progressista, tutto fa brodo.

Tomaso Montanari parla di “resistenza passiva contro l’algoritmo”, Gad Lerner evoca “un rigurgito reazionario”, Saviano ammonisce: chi non vota è complice. Laura Boldrini promette che torneranno, magari con un referendum sulle parole inclusive. Fratoianni accusa la “destra da spiaggia”, Elly Schlein chiede una riflessione “collettiva e intersezionale”, Pippo Civati rilancia un post del 2014 e dice: “ve l’avevo detto”. Conte? Non pervenuto. Non per scarsa visibilità: per carenza di linguaggio. Quando c’è da usare parole con più di tre sillabe, tace. Aspetta il vento. E se proprio deve dire qualcosa, lo fa in ritardo. Di solito dopo averlo letto altrove.

E poi ci sono i comprimari. Boccia, Bersani, Bonaccini: rassegnati. Non tanto all’esito del voto, ma al loro ruolo marginale. L’unico che sembra ancora crederci è Bersani, che però lo fa con un lessico contadino ormai parodico: “ci hanno fregato con le merendine”. Bonaccini fa opposizione come si fa una pausa caffè: con compostezza e nessun rischio.

Tutto questo sarebbe anche divertente, se non fosse per un piccolo dettaglio. La sinistra che oggi parla di “rispetto per il voto” è la stessa che nel 2011 aggirò il referendum sull’acqua pubblica con un gioco di norme, decreti e furbizie. Allora erano oltre 26 milioni i cittadini contrari alla privatizzazione dell’acqua. Bastò poco – un codicillo, una riformulazione – e la volontà popolare fu smontata, sterilizzata, reinterpretata. Ma in modo democratico, certo.

Oggi ci viene spiegato che il problema è l’astensionismo. Che bisogna ricostruire il legame tra cittadini e istituzioni. Giusto. Ma sarebbe più credibile se a dirlo non fossero proprio quelli che, quando hanno potuto, hanno trattato il voto come un inciampo. La verità, semplice, è che la sinistra gaga non sa più parlare al Paese reale. Preferisce parlarsi addosso. Perde, ma si sente migliore. Non vince, ma si sente giusta. E quando le cose non vanno come spera, dà la colpa al popolo. Un popolo che, sotto sotto, non sopporta più. E che lo ha capito benissimo.





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