Il prof. Peppino Grossi ricorda Fausto Pellecchia a un mese dalla morte

Opinioni - L’uomo era ironico ed autoironico: amava la compagnia, gli piaceva scherzare, prendere, e farsi prendere, in giro; ma era fermo e serio nelle cose serie, costante negli affetti, leale nell’amicizia. Gli piaceva vivere, della vita apprezzava tutti i “sapori”, non solo quelli culinari

Il prof. Peppino Grossi ricorda Fausto Pellecchia a un mese dalla morte
di Redazione - Pubblicato: 19-02-2024 18:07 - Tempo di lettura 4 minuti

In occasione del trigesimo della morte del prof. Fausto Pellecchia, avvenuta il 20 gennaio scorso, il già preside del Liceo Classico "Carducci", prof. Peppino Grossi, ne delinea il ritratto con questo ricordo bello, pieno di affetto e di rimpianto per l'amico e per l'uomo di straordinario spessore culturale.

La morte di un uomo, di qualsivoglia uomo (o donna) è una tristezza; quella di particolari uomini (o donne) una sciagura. Mi riferisco a persone di valore che, con la loro opera e la loro cultura hanno segnato profondamente (e positivamente) il vivere stesso di una comunità, fino al punto di conferire tratti essenziali alla sua “fisionomia” socio-culturale e, quindi, alla sua stessa identità. Appare, perciò, evidente che la scomparsa di tali personaggi è un “vulnus” che ferisce non solo familiari ed amici, ma l’intera comunità, che ne esce mutilata, dolorante e impoverita. Proprio nella condizione in cui è venuta a trovarsi la città di Cassino con la morte di Fausto Pellecchia.

Fausto, professore di ermeneutica filosofica per molti anni nella università di Cassino, è stato un docente e uno studioso eccezionale, autore di svariate pubblicazioni apprezzate a livello nazionale, e un collaboratore di importanti riviste di filosofia. Era in possesso di una cultura vasta e multiforme che travalicava i confini della disciplina sua propria (la filosofia) e spaziava in campi disparati: la letteratura, la psicoanalisi, la pedagogia, la dottrina politica; una cultura, soprattutto, viva, alimentata da una palpitante sensibilità umana. Tale cultura, ben lontana, dunque, dalla fredda e sterile erudizione, che caratterizza spesso il sapere di molti cattedratici, era il frutto di uno studio serio, durato una vita, e avvertito da lui non (leopardianamente) come “matto e disperatissimo”, ma, addirittura, credo, come salutare e piacevole. E la cultura solida, ricca e raffinata sosteneva, all’occorrenza, il suo giudizio critico.

E, rimanendo in tema di studio e di cultura, impressionanti erano in lui la velocità di lettura (divorava, letteralmente, tomi di centinaia di pagine in un tempo ristrettissimo e ne assimilava i contenuti) e quella della scrittura (non faceva brutte copie, scriveva di getto senza pentimenti e correzioni). Questo patrimonio culturale, questo capitale “umano” (“capitale invisibile” fu definita la cultura molti anni fa da un apprezzato pedagogista) Fausto l’aveva messo a disposizione non solo dei suoi studenti, ma dell’intera città, attraverso l’organizzazione di convegni, di dibattiti, di presentazioni di libri di varia natura, raccogliendo, così, il testimone che, idealmente, gli consegnava suo padre, l’indimenticabile e mai abbastanza rimpianto preside Gioacchino Pellecchia, che era stato, negli anni 50 e 60 del secolo scorso, l’animatore instancabile della vita culturale della città.

Fausto, comunque, non si identificava affatto con lo studioso che si isola nella sua torre d’avorio, indifferente e incurante dei fatti del mondo: la sua non comune vocazione allo studio non lo distoglieva minimamente dall’impegno socio-politico, al quale, anzi, ha dedicato gran parte delle sue energie intellettuali, in maniera appassionata e disinteressata. Ha militato sempre a sinistra, ma lo ha fatto guidato da indipendenza di giudizio e spesso in disaccordo con le iniziative politiche del partito di appartenenza. E anche nel campo della politica, oltre che in quello della cultura, Fausto ha esercitato una preziosa azione educativa a beneficio della città, anzi, è meglio dire, dei giovani della città, dal momento che, come si sa, nessuna azione pedagogica sortisce effetti “salutari” su vecchie carcasse morali “in tutt’altre faccende affaccendate”.

L’uomo era ironico ed autoironico: amava la compagnia, gli piaceva scherzare, prendere, e farsi prendere, in giro; ma era fermo e serio nelle cose serie, costante negli affetti, leale nell’amicizia. Gli piaceva vivere, della vita apprezzava tutti i “sapori”, non solo quelli culinari.

Era coraggioso e paziente: in cinquantadue anni di amicizia non l’ho mai sentito lamentarsi; eppure, soprattutto negli ultimi anni, la sua salute non è stata delle migliori. Non si è mai lamentato nemmeno di mancati ma dovuti riconoscimenti, che gli sono stati negati nella carriera accademica per il suo spirito indipendente e la sua assoluta mancanza di piaggeria: non gli è stato consentito, ad esempio, di arrivare all’ordinariato, del quale, più di altri, era degno, e per il quale era pronto già quando era poco più che trentenne. E la stessa cosa, più o meno, gli è capitata in politica: non ha potuto ricoprire mai una carica pubblica di una certa rilevanza, sebbene sia stato più volte l’organizzatore della campagna elettorale di parecchi personaggi, e l’artefice in parte della loro vittoria, personaggi che non hanno poi mostrato la stessa sua generosità.

Ora che se ne è andato e non lo vedremo più comparire la sera in piazza Diaz con il passo lento degli ultimi tempi, rimpiangiamo le sue parole, le sue risate, le sue battute, e quei guizzi di intelligenza con i quali spesso chiudeva un ragionamento: in una parola, la sua presenza.  E quando la nostalgia di lui si farà troppo forte, lo andremo a cercare nei suoi libri, nei suoi articoli; ma non sarà la stessa cosa. Come scrissi in occasione di un’altra triste e dolorosa circostanza, la morte di Gino Salveti, “vi sono stati uomini di valore, per impegno ed umanità, per ricchezza di spirito e fascino intellettuale, che, purtroppo, non ritroviamo nelle loro opere, le quali costituiscono solo una pallida testimonianza della vita intensa dei loro autori. Sono uomini, questi, la cui vita è stata molto più ricca delle opere che hanno lasciato, se per opere intendiamo in senso stretto, romanzi, poesie, saggi, dipinti.

Il capitale culturale, che pure hanno accumulato e trasmesso in eredità alle generazioni successive, è meno visibile di un libro o di un quadro (che pure, magari hanno lasciato) ed è da ricercare nella maturazione del gusto estetico, nelle scelte culturali e politiche, nella temperie morale che essi hanno concorso a determinare nel loro tempo e in quello successivo. Sono uomini che in suggestioni, consigli, dibattiti, provocazioni culturali, hanno speso gran parte del loro talento, consentendo ad altri di produrre più concretamente”.  Come, appunto, dicevo all’inizio.

Ho davanti il necrologio che Fausto scrisse in memoria di Erberto Cardaci, un altro intelligente e colto amico. Si apre con queste parole: “Quando un amico ci lascia per sempre, è come se ci ricordassimo con sorpresa che la vita sa essere spesso ingiusta anche in punto di morte”.

Io, invece, mi chiedo se non sia la morte stessa, con la sua barbara “necessità”, con la sua crudele ineluttabilità, la vera e suprema ingiustizia, che toglie senso e significato alla vita.

Peppino Grossi





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