A ruota libera: sulla traiettoria di viaggi ed idee - Il coraggio di essere veri: la sfida di una vita autentica. Nuovo appuntamento con la rubrica 'A ruota libera: sulla traiettoria di viaggi ed idee'
Lo avrei dovuto scrivere all’alba appena sorta davanti ad un panorama visto dall’alto. O magari mentre ero nella tundra a Tromso, ed i confini svanivano all’orizzonte, ed io non distinguevo più i contorni della realtà da quelli di una fiaba.
“Non c’è miracolo che non preveda una prova da superare”.Mi sono addormentata ieri sera con questa frase rimasta aperta fra le mani, ed impigliata dentro i capelli, ma non volevo scostarla, non volevo farla lasciare andare.
L’ho tenuta per me come un promemoria importante, come una matita infilata a mò di elastico per la tua coda, che sai che di lì a poco dovrai usare. Mi si è impigliata perfino dentro un ricordo, all’apparenza irrilevante, e soprattutto che non c’entrava nulla.
Ma, a volte, la vita si diverte a rivelarsi dentro quei dettagli che tu pensavi insignificanti, come forme reali che si incarnano dentro le nuvole e ti ci vuole qualche tempo per comprendere che aspetto abbiano assunto.
Era l’estate afosa in una kermesse roccaseccana, che celebrava gli incontri d’autore e che, sorprendentemente, si preparava a donare a cittadini e visitatori l’incontro con chi , forse meglio e più di ogni altro attore, dalla sua acuta osservazione, direi quasi maniacale e testarda, del genere umano, ha tratto la sua inimitabile ispirazione.
Aveva gli occhiali tondi, quelli di uno dei suoi più famosi personaggi, si sbracciava a raccontarsi, e mentre lo ascoltavi pensavi che la vita nelle sue parole e nei sui gesti si moltiplicasse di possibilità ed incontri, di trame e sottoboschi inesplorati, di porte nascoste e girevoli, quando, facendo roteare le mani verso il basso, con lo sguardo a terra, in un misto fra il timore di rivelare troppo e l’urgenza di dirlo per potergli dare la possibilità di essere smentito, Carlo disse “Ho paura che quello che mi disse Alberto, prima di congedarsi dalla vita , stia diventando reale. Ho paura che non abbiamo più nulla da dire, nulla di eccezionale, singolare, di davvero fuori la norma, di autenticamente genuino”.
Nulla che esca dal foglio, che tradisca gli algoritmi social, che sia diverso per davvero, così diverso da non essere assoggettabile ad alcuna moda; da rompere l’ipocrisia di alcuni stendardi, da arrivare massiccio alla bocca dello stomaco e farti ritrovare davanti a te sconosciuto.
Qualcosa che ti costringa ad essere vero, che ti faccia conoscere te stesso di nuovo daccapo, che sia così viscerale da vincere l’abitudine di andare soltanto laddove le cose ti sono famigliari, e risuonano del tuo stesso eco: quello somigliante alla tua voce gettata sul fondo di un pozzo asciutto di coraggio, ma stracolmo di limiti, costruiti a mò di corde.
La verità di ognuno di noi risiede laddove non siamo ancora stati; al di là degli steccati eretti a protezione e contro perfino l’abitudine di esserci fatto amico il dolore.
Così la società si è organizzata, in una class action improvvisata, fatta di costante e continua omologazione: tutti uguali, tutti mediocri perché tutti somiglianti della parte meno viva di ognuno, meno pulsante, tutti registrati sul tono monocorde del coraggio da discount, quello che costa meno, che è popolare, che è instagrammabile e che di noi, del nostro profondo, non dice nulla.
Eppure in “Dimmi di te”, Chiara Gamberale svela l’unica e più massiccia paura che se non vinta è capace di annacquare una vita intera: quella di non concedersi alcuna verità, soprattutto quella di se stessi.
Che non è soltanto la verità del lavoro che fai, delle passioni che hai, degli affetti che vivi: è una verità più complessa, che postula il percorso in labirinti inesplorati; è la verità del perdono di quello che non sei, ma vorresti essere; è la verità del pianto che avvolge quello che di te hai messo forzatamente a riposo; è la verità del rischiare e già in quel rischio, con tutto quello che ne potrebbe derivare, sentirsi vivo, appagato, fortunato.
Senza verità, non ci sarà più nulla da raccontare dentro la pellicola di un film; aveva ragione Carlo Verdone. Ma forse neanche più nulla da dipingere, o da scrivere o da disegnare.
Senza verità, è la vita stessa che resta muta, che non si disvela, come un gomitolo rannicchiato in se stesso, che rotola sempre su stesso e che non sa dove lo potranno condurre mai tutti i suoi fili, se soltanto si srotolassero per terra.
Quanto la vita viene raccontata, si fa strada dentro di noi; diventa narratrice essa stessa di altre storie, e capovolge tutto l’assioma sul quale oggi la società si fonda. La competizione non è mai con gli altri; è sforzo vacuo e sprecato rimpicciolirsi dentro le mode altrui, o al contrario cercare di ingradirsi dentro ambizioni che non ci appartengono.
La sfida è superare i nostri limiti e cercare la nostra verità. Offrirla audacemente e con spontaneità ad un mondo che ne ha così paura perché fatica tanto a trovare la propria. È questo forse il miracolo di cui abbiamo bisogno.
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