Racconti e Poesie - Oggi Francesca Messina ospita il racconto di Benedetto Di Paola di Rocca D'Evandro
La Casina (storia vera)
Ante e post guerra (fino agli anni Cinquanta).
‘La Casina’ era un piccolo borgo in fondo a via ‘Casevecchie’. Tra le casupole della servitù e di alcuni coloni si ergevano il campanile della chiesetta e, dietro, la dimora padronale che si affacciava su un parco-giardino con lecci, siepi di bosso, aiuole, panchine di pietra e una balaustra a muretto sul limitare dello strapiombo sul fiume; da lì i signori indugiavano ad ammirare i tramonti e a osservare, anzi a controllare, il formicolio dei contadini al lavoro nella piana.
Negli ultimi anni dell’anteguerra nella dimora trascorreva le sue giornate ‘gliu signurin’ (il signorino), erede di terreni estesi a perdita d’occhio dalla piana, alle valli e alle colline. Unico figlio maschio di famiglia nobile, rimasto solo, era diventato lunatico, permaloso, vizioso; provava un piacere sadico a sottoporre gli inservienti e i coloni a soprusi cervellotici come certi ragazzacci quando martoriavano le lucertole acchiappate con un minuscolo cappio o le cicale che accecavano e poi liberavano in voli impazziti di mille giravolte.
Gli anni avevano appesantito il suo corpo un tempo scarno e ossuto e gli avevano imbiancato i capelli tagliati rigorosamente ‘alla Umberto’ e la barbetta caprina, sempre curata, che terminava a punta sul mento. Non si separava mai dal suo foulard di seta annodato al collo e inforcava un paio di occhialini da vista che però poggiava sulla punta del naso adunco, così, per vezzo.
In presenza di una donna, anche la più sgraziata, inumidiva continuamente le labbra bluastre con la punta della lingua che ticchettava a colpetti veloci come un serpente. Ogni mattina si vestiva da prete, una mania, e officiava nella sua chiesetta un fac-simile di messa, sacrificio da offrire a Domeneddio in cambio del placet per le malefatte che avrebbe messo in cantiere durante la giornata.
In fondo a via ‘Casevecchie’, prima del vialetto che conduceva alla chiesetta, si apriva un’aia lastricata con ciottoli di fiume dove tutti i coloni del latifondo dovevano portare con i carri i covoni di grano da sistemare in ‘casarce’ (1) in attesa della trebbia che arrivava puntualmente dopo la prima decina di luglio.
‘Gliu signurin’ assisteva a tutte le operazioni della trebbiatura, dall’inizio alla fine, in mezzo alla polvere, poveretto, attento a che qualche chicco di grano non andasse a finire nel tascone del grembiule delle donne; e non gli bastava spartire il grano a ‘cinque a uno’ che si prendeva pure quell’uno per appianare il prestito contratto con lui da quei poveracci durante l’inverno per racimolare almeno un tozzo di pane da accompagnare alla zuppa di verdure selvatiche.
Spesso capitava che al termine della trebbiatura i poveri contadini se ne tornassero a casa con i forconi sulle spalle, i sacchi vuoti e la pena nel cuore.
La domenica e le feste comandate nella chiesetta faceva il suo ingresso il prete vero, vuoi mettere, con tanto di sacrestano di fiducia al seguito, accolto da un nugolo di coloni, uomini e donne di ogni età, che accorrevano alla messa non tanto per autentica fede ma per non far torto a ‘gliu signurin’ che ci teneva tanto alla cura delle loro anime e a far bella figura con la chiesa, quel sant’uomo.
Prima della benedizione ‘gliu signurin’ gia s’era andato a piazzare innanzi al portone della chiesetta per salutarli, uno a uno, i suoi coloni ma con gli occhi strabuzzati al di sopra degli occhialini, un vero e proprio ‘sessual detector’, esaminava ogni donzella che gli passava innanzi. Individuata la vittima la chiamava a sé e:
-Che bella signorina che sei! Di chi sei figlia? – chiedeva mentre sogghignando si fregava le mani.
La poveretta rispondeva.
In giornata il solito lacché si recava a casa della malcapitata e:
-‘Gliu signurin’ v’ manna a di’ ch duman matina vo’ v’re’ la figlia vostra – (2) annunciava ai genitori con brutale arroganza che in quel momento non stava nei panni per il fatto di rendere un servigio al suo padrone. E gli capitava sovente.
Poi girava i tacchi, mostrava le toppe sul posteriore dei pantaloni e tornava a ‘La Casina’.
A quella visita, temuta da tempo, una cappa di rabbia-vergogna-dolore-impotenza schiacciava la famigliola della sventurata che a protestare non avrebbe evitato lo scempio e la sera stessa sarebbe stata cacciata dalla catapecchia colonica, che sempre un tetto in testa era, senza nessuna possibilità di trovare un altro ‘don’ disposto ad accoglierla nelle sue tenute. Il rospo era proprio grosso da ingoiare e rimaneva nel gozzo da togliere il respiro.
A ‘La Casina’ si ripeteva di frequente la stessa storia.
L’ultima vittima, Gesualda, che aveva peli sullo stomaco più di un uomo, dacché ormai la violenza l’aveva subita, pensò a una vendetta da assaporare a pezzettini, uno al giorno, per un tempo il più lungo possibile e trarne almeno un qualche tornaconto dall’offesa subita.
Così incominciò a intrattenersi sempre più a lungo in casa del ‘signorin’ che riempiva di accortezze, di carezze e di moine in vestaglia maliziosamente discinta, che gli ammanniva gli intingoli preferiti e gli si rivolgeva con voce sensualmente suadente. ‘Gliu signurin’, sempre sensibile a certe effusioni femminili benché rintronato come se il solleone gli avesse bruciacchiato il cervello, si fregava le mani come al solito sibilando i suoi ormai innocui ‘eh-eh-eh’.
Non capiva che stava scivolando verso il precipizio.
A un certo punto Gesualda, prima con parole vaghe e casuali, poi sempre più insistentemente e a volte con qualche manrovescio ben assestato, incominciò a dire a ‘gliu signurin’ che se voleva godere ancora dei suoi servigi e delle sue grazie doveva donarle quella terra buona, quella esposta al sole, a parziale ricompensa della violenza che le aveva rovinato la vita e dello scorno patito dalla sua famiglia.
‘Gliu signurin’, ossessionato da desideri amorosi ormai vivi solo nella sua fantasia e in balia di una pazzia galoppante, firmò l’atto di donazione che la donna aveva fatto predisporre da un suo conoscente istruito, uno che sapeva leggere e scrivere, una cosa fatta a dovere insomma, mica a chiacchiere.
Decretò la sua fine.
Dopo la guerra visse la decina di anni che gli erano restati tra il dileggio degli inservienti e le angherie di Gesualda.
Una notte che gli mancava l’aria si sedette sul bordo del letto con i mutandoni inavvertitamente sbottonati.
All’inserviente che gli sussurrava -Signuri’, la pistola! - accennando con la testa alla parte del corpo che non era un bello spettacolo lui, indispettito, replicava -Sta nel cassetto, perbacco! -, più di una volta, che intendeva l’arma vera.
Alla fine, in un rigurgito di pudore che pure gli era estraneo, portò le mani sulla parte indicata farfugliando -Oh c…. ! – chiuse gli occhi e spirò.
Dopo due giorni la carrozza del ‘signurin’ percorse per l’ultima volta via ‘Casevecchie’, lo ‘stradone’ lo chiamavano i contadini del luogo, dritta tra due filari di pini sul crinale della collina.
Al seguito dell’ultima incarnazione di un’epoca poche persone distratte.
Note:
1- Cataste di covoni a forma di casa;
2- Il signorino vi manda a dire che domani mattina vuole vedere vostra figlia.
Benedetto Di Paola (Rocca D'Evandro)
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