Opinioni - Chi riveste incarichi pubblici ha il dovere morale e istituzionale di utilizzare il linguaggio come strumento di unione e non di divisione. Riflessioni sulle derive retoriche e i rischi per la coesione sociale
di Dario Nicosia
Non sono un politico di professione, ma una persona che dà molto peso alle parole e agli atteggiamenti, soprattutto quando provengono da figure pubbliche di rilievo. Leggo sempre tra le righe, cercando di cogliere il significato intrinseco delle dichiarazioni, e trovo interessante verificare se i commentatori politici rilevano le stesse implicazioni. Nel caso recente di un invito alla “rivolta sociale”, ho osservato numerosi interventi critici e persino giustificazioni da parte di alcuni, mentre, sorprendentemente, sulla frase “gli umbri si sono ripresi l’Umbria” pronunciata dalla segretaria del PD, non ho riscontrato reazioni altrettanto critiche. Perché questo silenzio? È questa domanda che mi spinge a riflettere su come certe espressioni possano tradire lo spirito democratico.
Le parole di chi esercita un ruolo pubblico non sono mai neutre: hanno un impatto che trascende il momento in cui vengono pronunciate e plasmano opinioni, atteggiamenti e persino relazioni tra i cittadini. Espressioni come “gli umbri si sono ripresi l’Umbria” e inviti alla “rivolta sociale” sono esempi lampanti di un linguaggio che, invece di rappresentare e includere, rischia di polarizzare e dividere, con conseguenze ben più profonde di quanto si possa immaginare.
Nel primo caso, la frase pronunciata dal segretario del maggior partito di opposizione, “gli umbri si sono ripresi l’Umbria”, sottintende che un territorio possa “appartenere” a una parte politica piuttosto che a un’altra. Questo tipo di narrazione tradisce il principio cardine della democrazia: l’amministrazione pubblica non è un trofeo da conquistare, ma una funzione esercitata nell’interesse collettivo, concessa dagli elettori attraverso un mandato temporaneo. Ridurre un evento elettorale a una logica di appartenenza politica banalizza il dibattito democratico e mette in discussione la coerenza di chi si proclama custode dei valori costituzionali.
Il secondo esempio, l’invito alla “rivolta sociale”, proviene dal leader del maggiore sindacato nazionale e rappresenta una deriva ancor più pericolosa. Un simile linguaggio delegittima le istituzioni democratiche e alimenta un clima di conflitto e instabilità, rischiando di tradursi in azioni concrete. Paradossalmente, chi si erge a paladino della legalità e del dialogo sembra non rendersi conto di come queste parole minino alla base la coesione sociale e aggravi le tensioni esistenti, senza proporre soluzioni costruttive.
Chi riveste incarichi pubblici ha il dovere morale e istituzionale di utilizzare il linguaggio come strumento di unione e non di divisione. In un’epoca in cui il degrado del dibattito pubblico è sotto gli occhi di tutti, la scelta consapevole delle parole non è un atto superficiale, ma una responsabilità verso l’intera società.
Alla luce di ciò, è lecito chiedersi quanto siano credibili le lezioni di democrazia impartite da chi, con il proprio linguaggio, tradisce i principi fondamentali di cui dovrebbe essere garante. È forse arrivato il momento di riflettere sul peso delle parole e di esigere maggiore coerenza tra dichiarazioni pubbliche e azioni concrete, ricordando che la politica del linguaggio è, a tutti gli effetti, una politica della realtà
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