“Si può ancora dire qualcosa?”

 “Si può ancora dire qualcosa?”

RUBRICHE - I complimenti, si sa, fanno sempre piacere; in fondo ti sto dicendo che sei bella, mica che sei brutta. Ah, non posso dirtelo? Eh ma ormai non si può più dire niente!” Proviamo a capire se è davvero così, o se la questione è un pizzico più complessa

di Giulia Zaccardelli

Qualche giorno fa sono andata in un bar a lavorare. Era un’afosa giornata di fine luglio, con un caldo insopportabile e non bastavano bustine e bottiglie di integratori per stare in piedi. Ero al pc da ormai un paio d’ore, bevendo thè ghiacciato al limone, quando nel bar è entrata una persona che, a prima vista, non conoscevo.

Leggerete più volte di questa persona, quindi la chiamerò X; si è seduta al tavolino di fronte al mio e ha ordinato un ginseng.

X ha iniziato a fissarmi da subito. Per almeno due minuti mi sono sentita osservata con insistenza. Ho spostato lo sguardo rapidamente nel bar per dissimulare il mio disagio, ma i miei occhi hanno incontrato sempre i suoi, che sembravano incollati su di me.

Vi è mai capitato di sentirvi inchiodati allo sguardo di qualcuno?

Nella mia testa hanno iniziato a rincorrersi vari pensieri: chi è X? Ci conosciamo? Vuole qualcosa da me?

X si è alzato e seduto al tavolo affianco al mio: ho pensato che forse mi conosceva, e voleva presentarsi. Invece mi ha chiesto se volevo un caffè o altro, con sorriso sornione e occhi languidi.

Io ho guardato X di sfuggita, ho ringraziato e declinato l’offerta; ho provato a tenere X alla larga con le parole, o meglio, con l’indifferenza. Mi sono voltata, ho dato le spalle, ho fatto finta di niente.

Eppure mi sono sentita continuamente osservata, e dopo poco X ha ricominciato a parlarmi: mi ha chiesto se sul pc stessi preparando un esame o scrivendo la tesi. Ho risposto che stavo lavorando, ma dentro di me non capivo come X non percepisse il gelo artico che emanavo, e che sarebbe bastato a rinfrescare tutta la città.

Dopo altri cinque minuti, è arrivato il suo ginseng e X si è offerto nuovamente di pagarmi una consumazione. Stavolta l’indifferenza non è stata mia alleata.

Con sempre meno pazienza, ho spento il pc per andarmene, ma non ho potuto fare a meno di pensare che se mi fossi alzata per prendere lo zaino, X avrebbe potuto guardarmi da dietro, contemplare la mia schiena, il mio sedere e le mie gambe con quello sguardo lascivo con cui mi aveva già squadrata da seduta.

Ho deciso di rimanere sulla sedia, ho allungato le braccia per prendere la borsa, e mi sono alzata solo dopo aver messo il pc dentro, quando ero sicura di potermi allontanare rapidamente da X e dal suo sguardo penetrante e invadente.

Se voi che leggete avete vissuto un’esperienza del genere, sapete che non basta allontanarsi per togliersi di dosso il fastidio e la sensazione di sporcizia che certi sguardi ci appiccicano sulla pelle.

Appena mi sono alzata, X mi ha guardata da capo a piedi; era così vicino, con lo sguardo e il corpo, che avrebbe potuto anche toccarmi, se solo avesse allungato la mano. Io mi sono sentita mangiata e digerita dai suoi occhi, il mio corpo in balia dei suoi pensieri.

Ho guardato X negli occhi, e mi ha fatto i complimenti per il rosa del vestitino. Gli ho chiesto se i complimenti fossero davvero per il colore dell’abito. Mi ha detto che erano per il mio corpo.

Ho fatto presente a X che i suoi commenti non mi interessavano, anzi, che mi davano la nausea, e mi sono allontanata con un fastidio che correva veloce e visibile sulla pelle.

X mi ha raggiunto in cassa, mi ha chiesto cosa mi abbia infastidito. Ho detto che dall’inizio non avevo dato confidenza perché non mi interessavano le sue attenzioni.

Ma X, con arroganza, mi ha detto che i complimenti non danno fastidio a nessuno, anzi, fanno piacere a chi li riceve, e che ormai non si può più dire nulla.

Ho raccolto le ultime briciole di calma per far presente a X che i suoi complimenti erano sul mio corpo, roba mia, e che se io mi infastidisco, deve chiedere scusa, e non proseguire oltre il limite già superato.

X ha fatto spallucce mentre si allontanava, continuando senza freni a ripetere che poteva apprezzare chi voleva.

Mi chiedo chi di voi si sia ritrovato in situazioni simili, e che cosa abbia pensato.

Perché io mi domando se le persone hanno davvero la libertà di riferirci il modo in cui ci pensano a loro uso e consumo, con la pretesa che il loro immaginario debba farci piacere.

Con l’arroganza di credere che essere apprezzati, prima per l’abbigliamento, e poi per il corpo, debba compiacerci a tutti i costi.

Come vi sentireste se faceste notare che certi commenti non sono graditi, e l’altra persona insistesse, pretendendo che quello che dice debba farvi piacere?

Siamo fatti anche per essere guardati, certo, ma chi ci guarda ha il diritto di dirci come dobbiamo sentirci davanti ad uno sguardo o ad un apprezzamento?

Forse il vero diritto è dire ciò che troviamo irrispettoso, senza che questo sia oggetto di discussione.

Esistono dei limiti, a volte tangibili, espressi a parole, altre volte intangibili ma percepibili attraverso l’indifferenza o il distacco, che non si possono superare.

Ma se questo confine viene oltrepassato?

Chi si permette di dire qualcosa su di noi, dovrebbe anche accettare le nostre reazioni.

E forse l’ormai abusata formula “Non si può più dire niente”, nasconde l’incapacità di gestire la scomodità di essere nel torto.

Ma anche l’incapacità di confrontarsi con chi ci sta di fronte: per anni infatti si è taciuto di fronte ai “complimenti” non richiesti.

E se questo silenzio fosse stato riempito dalla convinzione, da parte di chi parla, di essere nel giusto? Di poter dire la qualunque, senza generare reazioni degne di nota nell’interlocutore? Di sentirsi anche in diritto di farlo, perché il silenzio rende l’altro è un oggetto in suo potere?

In effetti, anche prima davano fastidio certi atteggiamenti ma, appunto, si taceva di più. Forse ci si percepiva già sconfitti davanti ad una qualunque reazione ad un gesto tanto “normale” come quello di fare i commenti non richiesti.

E qui vi chiedo: cos’è per voi la violenza? Solo gesti plateali? Schiaffi, pugni, insulti, omicidi?

Oppure la violenza si insinua anche nelle parole, negli sguardi, nei pensieri vomitati e, soprattutto, nel non riconoscere l’altra persona come una propria pari? Nel non sentirsi abbastanza forti da poter reagire?

Sulla violenza si può dire con certezza che si nutre di silenzi, che prevaricazione e alienazione vanno a braccetto, e insieme negano ogni tipo di confronto.

Ma a questo punto voi mi chiederete: chi è X? E io vi rispondo: è davvero indispensabile sapere chi è X?

X potrebbe essere chiunque: forse un adolescente; forse un avvocato, un medico, un professore che insegna in un liceo; forse un settantenne che frequenta abitualmente quel bar; forse una persona senza fissa dimora.

E se X fosse stato un ragazzo giovane e bello, magari proprio quello che avete visto l’altra sera in piazza, e che volevate conoscere? E se fosse stata una donna?





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